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Scrivo in quanto donna

Com’è crescere con la consapevolezza di diventare una Donna, con tutto ciò che questo comporta?

la psicologa della donna, in quanto donna, 25 novembre

ANNI ’90

Ho dei bellissimi ricordi di infanzia. Tra questi le big reunión con tutti i parenti in villa, dove noi cugine  e cugini scorazzavamo sguinzagliati da una parte all’altra.

Ricordo che una volta, avrò avuto 5/6 anni, stavamo giocando a Caccia al Tesoro (credo) e all’improvviso  mi scappò la pipì; era urgente, riuscivo a trattenermi a stento.

Così feci la cosa più semplice e naturale (secondo me): feci la pipì vicino ad un albero, in piedi, con le mani vicino all’inguine (anche se di fatto io non dovevo mantenere nulla), come avevo visto fare tante volte a mio fratello e ai miei cugini. 

Se la facevano loro in questo modo potevo farla così anche io, ovvio.

Peccato che agli altri non sembrò un gesto tanto normale, per una bambina. 

I maschi fanno la pipì così, non le femmine”, “non hai il pisellino, non puoi”, “sei una femminuccia! Cosa ti è venuto in mente?!”…

Da quel momento ho cominciato a nutrire una seria invidia per i maschi; non per i motivi supposti da Freud, ma per tutto ciò che significava avere il pene, per quell’universo di possibilità e comodità che sentivo già a me precluso.

INVIDIA DEL PENE, SECONDO ME

Quel senso di invidia misto a percezione di ingiustizia e rabbia si alimentava ogniqualvolta chiedessi “perché lui può e io no?” e mi veniva risposto “perché lui è maschio e tu sei femmina”…

Man mano che crescevo, ricevevo quella risposta sempre più spesso, in contesti differenti.

Così ho scoperto che l’essere femmina mi precludeva la possibilità di indossare quello che volevo, quando volevo, di usare determinati colori, di truccarmi in un certo modo; mi impediva di uscire quando ne avevo voglia e delimitava il perimetro in cui potevo muovermi; mi limitava la scelta delle opzioni di studio e di lavoro future, dei ruoli cui avrei potuto aspirare; prescriveva i valori che avrei dovuto abbracciare ma per cui non avrei dovuto espormi troppo, per non essere considerata isterica e polemica.

L’essere femmina significava anche non poter fare alcune battute, tanto meno pensarle; stare attenta ad usare certi toni, per non essere fraintesa; bloccare l’espressione di me stessa per non correre il rischio che i pene dotati potessero sentirsi stuzzicati e indotti a non avere il controllo sui loro istinti primordiali.

E ho scoperto anche che essere femmina implicava degli obblighi e dei doveri cui non avrei potuto sottrarmi, pena la gogna sociale: trovare un marito con un buon lavoro, concepire i SUOI figli, permettergli di continuare le SUE tradizioni di famiglia e trasmettere il SUO cognome alle generazioni successive, accudire la SUA casa, crescere la SUA famiglia.

La cosa più sconvolgente fu scoprire che i “non” del codice comportamentale femminile se agiti da un uomo diventavano degni di lode.

EDUCAZIONE FEMMINILE

“Non puoi indossare la minigonna, ti si vedono troppo le cosce. Un uomo chissà quali segnali potrebbe ricevere”.

Vedevo ragazzi e uomini vestiti come pareva loro senza dare importanza ai segnali che avrebbero potuto inviare. E ciò era interpretato come segnale di sicurezza in sé e autostima.

“Non puoi usare quei toni! Sembri una stronza, prepotente e polemica!”

Sentivo i miei compagni, i prof usare toni duri e impetuosi continuamente. Di loro si diceva fossero persone autorevoli, determinate e di tutto rispetto.

“Non puoi amare chi vuoi, quando vuoi; è una cosa da puttane!”.

Per i miei amici era un vanto il  numero di ragazze con cui erano andati a letto o a cui avevano strappato una banale limonata. Ciò li rendeva seducenti, affascinanti e desiderabili.

Più crescevo più detestavo l’essere e l’essere chiamata Donna. Cadendo inconsapevolmente in un’altra trappola sociale: mi ero convinta che ad essere sbagliata fossi io, non il sistema.

IN QUANTO DONNA

Ma non era facile vivere con quella consapevolezza addosso, quella associata alla formula “in quanto donna”. La sentii per la prima volta al telegiornale: per annunciare un femminicidio la cronista disse “uccisa in quanto donna”. 

PANICO. Capii che identificarmi come “donna” implicava automaticamente l’attribuzione di caratteristiche ed etichette:

debolezza, sottomissione, oggetto sessuale, rinunce, impossibilità, silenzio, vergogna, vittima, remissione, essere vivente con diritti limitati, proprietà.

Io non volevo rinunciare al mio essere donna ma non volevo neanche vivere così, con il terrore e sapendo che non sarei mai potuta essere completamente libera.

DONNA E ALGORITMO

Negli anni le cose sono un po’ cambiate. “Donna” oggi è diventato sinonimo di forza, lotta, determinazione, possibilità. Abbiamo rivoluzionato le regole sociali, ampliato i nostri spazi d’azione, ci siamo imposte in domini prima a noi preclusi. 

Ma in tv continuano a dare notizie di cronaca nera accompagnate da quel famoso “in quanto donna”; i social hanno introdotto nuovi modi con cui molestare una donna; molti ambienti di lavoro continuano ad essere ostili alla presenza femminile; utero e fertilità non sono skills gradite nei processi di selezione del personale; se una donna decide di fare la giornalista sportiva una sonora pacca sul culo in diretta deve essere tollerata senza fare troppe polemiche.

Qualcosa è cambiato si, ma la base marcia è rimasta. E di certo non la si può sanare con parole e azioni concentrate in un solo giorno, il 25 novembre, in cui gli algoritmi incrementano esponenzialmente views ed ascolto sul tema, per poi farli crollare a partire dalla mezzanotte del 26 novembre. Altro giorno, altro trend.

Come se ci fosse concesso solo un giorno per denunciare, tentare di cambiare le cose, modificare quel maledetto “in quanto donna”.

Come sto facendo ora, pubblicando questo articolo il 4 dicembre, dopo 9 giorni dalla giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, di sabato sera, quando ormai si parla solo di regali di Natale, del vestito più banale creato da Dior nelle ultime decadi e delle nuova era dei documentari trash su Amazon Prime, io penso che di DONNE, di DIRITTI, di LIBERTÀ, di FEMMINISMO, di VIOLENZA DI GENERE, di DISPARITÀ, di STEREOTIPI ARCAICI DI GENERE se ne dovrebbe parlare ogni SANTISSIMO GIORNO. 

Comunque quella volta, quando avevo 5/6 anni e feci la pipì “come i maschi”, mio padre mi prese in braccio e mi disse:

“brava amore mì! Hai dimostrato che le differenze tra donna e uomo sono solo mentali. Per natura, non c’è niente che tu come donna non potrai mai fare!”

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