Da circa un mese con la mia famiglia ci siamo trasferiti a Barcellona. Due millennials e una cagnolina alla ricerca del proprio posto nel mondo.
A luglio siamo letteralmente scappati da Milano, che cominciavamo a sentire opprimente: le sue richieste erano diventate sempre più urgenti e le nostre risorse (economiche, cognitive ed emotive) sempre più scarse. Una mia coetanea l’ha descritta così: “Milano prima ti attira a sé, cullandoti con la promessa di benessere, tranquillità e sogni di gloria; piano piano ti spolpa, fino all’ultima goccia di dignità; infine lascia di te solo la carcassa, di cui non sa cosa farsene. E ti butta ai margini”. Mi è rimasta impressa questa immagine. Forse perché in quel cumulo di carcassa buttate in una periferia dimenticata, ci ho visto anche la mia.
NO COUNTRY FOR OLD MEN. NO CITIES FOR YOUNG PEOPLE
A Barcellona ci siamo venuti facendo un salto nel vuoto con tanto di benda sugli occhi, letteralmente. Se ci fossimo fermati a pensare, se avessimo realizzato subito tutto ciò cui saremmo dovuti andare incontro, la paura e il tedio probabilmente ci avrebbero bloccatæ. Qui abbiamo trovato la stessa situazione italiana. Se non peggiore. Non ci sono case disponibili, la maggior parte vanno ai turisti o sono delle persone che abitano qui da una vita, per lo più anziane. Per le poche che ci sono i proprietari richiedono delle garanzie assurde. O meglio, assurde per gran parte di noi millennials, che tiriamo a campare in un’attualità in cui il divario tra stipendi e affitti è a dir poco catastrofico.
Il consiglio che viene dato, ancora, è: andatevene in periferia o in qualche paese limitrofo.
Siamo giovani, abbiamo voglia, per quanto ancora ci è possibile, di sperimentare la città con i suoi movimenti e le sue vibrazioni, ma sembra che nei centri non ci sia spazio per noi.
E poi, se noi ce ne andiamo ai margini, al centro chi resta?
Le città, i centri, i punti vibranti e nevralgici sono occupati da persone della generazione precedente la nostra, e di quella ancora prima. A noi, che dovremmo cominciare ad essere protagonisti della main scena, ci tocca la periferia. Ci hanno messæ a latere, e li abbiamo lasciati fare.
LA SCENA AL VECCHIO. GLI AVANZI AL NUOVO
La moda non è che una rappresentazione della società. E le fashion week sono il momento in cui i temi attuali più pregnanti vengono messi in figura. Così quello che viviamo, che sentiamo quotidianamente, che ci caratterizza come organismo sociale, viene messo in scena e finalmente, possiamo osservarlo da fuori e prenderne consapevolezza.
Al centro di questa Milano Fashion Week ci sono stati i vecchi e altisonanti brand; come capofila, salvo tre eccezioni, stilistæ e modellæ della vecchia generazione.
Anche nella rappresentazione della moda i vecchi marchi, i/le vecchiæ stilisti, le vecchie modelle si son presi la parte centrale del palcoscenico, le città, mentre i giovani sono stati posti ai lati, in periferia, dove in pochi li vedono e quasi nessuno presta loro attenzione. E non solo a livello di programmazione.
RIGURGITI PRESENTI DEL PASSATO
Facciamo un salto indietro, a luglio. Vogue pubblica un post in cui sponsorizza la docuserie The Super Models dedicata alla vita e alle carriere delle mitiche top model anni ’90: Naomi (’70), Cindy (’66), Christy (’69) e Linda (’65). È riportata una parte dell’intervista a Naomi «a volte, mi domando se le modelle di oggi avrebbero potuto tenere il nostro passo». Parole che non si rivolgono solo ad una categoria professionale, ma ad una generazione; che dicono, ancora, che il passato è migliore del presente, che non ce la possiamo fare, che siamo deboli, inconsistenti. E che a poter stare al passo anche nel presente, sono solo e ancora loro.
Difatti, da luglio, queste top model del passato hanno cominciato ad espandersi in qualsiasi spazio pubblico capitasse loro a portata di mano e a fagocitare l’attenzione del mondo attuale.
Torniamo alla MFW: Donatella Versace, oltre ad aver proposto una collezione omaggio a quella di Gianni dell’atelier 1995 con tutta la sua nostalgica palette colori, ha delegato il compito di creare hype a Claudia Schiffer (’70) che bellissima e sempreverde (in senso proprio stilistico) ha rubato la scena a Vittoria, Gigi, Kendall.
Dolce&Gabbana ha giocato la partita mettendo come capo squadra Naomi Campbell (’70). E poi ci ha inserito anche, mediante la stupenda Deva Cassel, un valore di cui la old generation va estremamente fiera: il nepotismo. D’altronde, loro sono ancora i protagonisti e loro sono ancora coloro che impongono i “valori”.
Prada ha partecipato a questa affermazione della supremazia del passato sul presente mediante un accessorio: una borsa reinterpretazione di quella ideata illo tempore, 1913, da Mario Prada, fondatore della maison nonché nonno di Miuccia.
Antonio Marras, per quanto incantevole e poetica sia sempre la sua narrazione, è volato ancora più indietro scegliendo Marisa Schiaparelli Berenson (’47) come protagonista della sua passerella. Aveva bisogno di una “diva vera” e, messaggio velato, il presente non ne offriva.
COSA CI STANNO DICENDO?
Cosa ci stanno dicendo? Forse che la bravura, il lusso, la scena non appartengono a noi, al presente ma sono ancora solo prerogativa del passato e di chi di esso ne è effigie.
Che non siamo in grado, che siamo ancora troppo fragili e piccolæ, che lo spazio centrale deve essere ancora loro e che ci dobbiamo fare ancora educatamente da parte.
Proponendo la grandiosità del loro passato, interrompendo il contatto con il presente, ci stanno dicendo che noi non siamo abbastanza per creare qualcosa di nuovo. Il guaio è che ci stiamo credendo.
Siamo gli/le sfortunatæ eredi di un passato talmente ingombrante da non lasciare al presente neanche la possibilità di svilupparsi.
Il Wall street journal, commentando la MFW, ha scritto che siamo diventati troppo vecchi. Ma diventare implica un processo di evoluzione e trasformazione; qui invece c’è solo uno stallo: la prepotenza del vecchio a non voler lasciare il testimone al giovane.
La verità dunque è che noi, millennials e gen Z, non siamo diventati proprio, ma che c’è ancora prevalentemente il vecchio a portare avanti la narrazione della moda italiana.
Il problema non è che non ci sia un cambio generazionale, che il presente non sia stato in grado di produrre una alternativa valida al passato. D’altronde, come si fa a creare un cambio generazionale quando la generazione precedente è così asfissiante e occupa ancora tutto lo spazio vitale?
Il problema è lo s-contro generazionale, non nel senso di lotta, ma nel senso di mancanza di incontro, di comunicazione, comprensione, sostegno, integrazione, passaggio di testimone. Fingono di ascoltarci, inserendo, ad esempio, una unica modella curvy in catwalk (vedi sfilata Versace) o concedendo un pochino di spazio laterale e visibilità ad artisti contemporanei che traducono in abiti i valori della nostra generazione, come Rambaldi, Avavav e Karoline Vitto. Ma continuano ancora ad ignorarci, minimizzarci, metterci in ombra e a rappresentare un enorme, ingombrante ostacolo che ci blocca la strada.
ANCORA
La parola “Ancora”, oltre ad essere il titolo della prima collezione di Sabato De Sarno per Gucci, indica la persistenza di una azione durativa o di uno stato, a volte in senso negativo; generalmente enfatizzata dalla rotazione degli occhi e/o dall’atto di alzare gli occhi al cielo.
Il tono con cui viene pronunciata esprime spesso mancanza di sopportazione per uno stato di cose che tende a rimanere uguale, immutabile, senza sviluppo, stantio. La moda italiana ora rispecchia la nostra società ora, nonché la situazione della nostra generazione ora, in termini lavorativi, personali e di crescita: ancora frenata, decentrata, incatenata al passato, costretta a sopportare passivamente gli imperativi e i punti di vista di chi l’ha preceduta, senza possibilità di scambio, integrazione, collaborazione.
Dobbiamo vivere al centro anche noi, prenderci la nostra parte di scena, essere protagonistæ, liberæ di fare quello che piace a noi ora senza il terrore del castigo o la bramosia dell’approvazione; cambiare, far valere i nostri ideali, la nostra visione delle cose, viverci e creare il nostro oggi.
Chiedo, per quanto ancora vogliamo permettere al passato di fagocitare il nostro presente e annebbiarci il futuro? Per quanto ancora vogliamo star seduti sul sedile posteriore e aspettare che qualcuno, un giorno, ci ceda lo sterzo? Per quanto ancora vogliamo far finta di star bene in periferia anziché rivendicare il nostro centro?
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