LA PRIMA VOLTA
All’epoca lavoravo da Zara (e si, paradossale la vita!) e ai dipendenti era imposta una divisa nera, di dubbia eleganza e assoluta scomodità.
Un giorno misi un fiocchetto rosso nei capelli; non volevo più vedermi né sentirmi anonima.
Non fu bello sentirsi dire che non avrei potuto mettere neanche quello, però ammetto fu stupendo vedere il fumo uscire dalle nari della vice direttrice, la quale aveva per me una simpatia tale da organizzare i suoi turni di lavoro in base ai miei. Per evitarmi e non dovermi vedere.
LA SECONDA VOLTA
Poi è successo di nuovo a Londra. Era il colloquio per lavorare da Harrod’s. La recruiter mi prese da parte e mi disse che se avessi voluto proseguire avrei dovuto togliere l’anello al naso. Quella situazione mi sembrò fuori dal mondo. Londra, una città internazionale, aperta al nuovo, non giudicante; che in quella stanza, in quel momento era diventata un minuscolo paese di provincia.
Uscii arrabbiata. Avevo sentito qualcosa, ma non avevo capito niente.
Trovai lavoro presso Maje e anche lì: divisa. Total black, colori aboliti, accessori colorati aboliti. Solo pantaloni neri, gonna nera, calze nere coprenti, maglioncini e t-shirt nere.
Lì mi venne in mente che avrei potuto aggiungere un po’ di me nei capelli, così li colorai con tutte le sfumature dell’arcobaleno. Guardandomi allo specchio avevo bisogno di vedere e far vedere che avevo altro, oltre il nero, imposto da un capo, che neanche mi aveva mai vista. E che sicuramente non sapeva neanche della mia esistenza.
LA TERZA VOLTA
Torno in Italia, trascorrono anni in cui lavoro come libera professionista.
Trovo una posizione come recruiter in una bella realtà ma anche qui: dress code.
No colori, no outfit particolari, no capelli acconciati o colorati in modo estroso.
“Il look deve essere sobrio, professionale, da ufficio. Non deve trasmettere emozioni, non deve trasmettere niente, solo e soltanto professionalità e serietà”.
Questa volta ho 34 anni, sono al secondo anno di scuola di psicoterapia, ho un master in psicologia della moda e sto scrivendo un libro sulla mia terapia della moda.
Ho capito. E vi dico….
CHE DICE LA RICERCA
Ciò che indossiamo INFLUENZA il modo in cui ci sentiamo e ci comportiamo. Ha ripercussioni sulla nostra creatività, sul modo in cui ci relazioniamo con gli altri, sulla concentrazione e sulla self-confidence. Questo è vero in ogni singolo momento della nostra miserabile vita, quindi anche sul lavoro.
Qui noi ricopriamo uno specifico ruolo, che richiede determinati atteggiamenti e qualità; e qui portiamo anche le cosiddette soft skills, le competenze trasversali aka le qualità che abbiamo costruito e cementato grazie alle nostre esperienze, non solo lavorative. Anzi.
Quindi creatività, flessibilità mentale, apertura, simpatia (nel senso di sentire-con), problem solving.
Competenze queste che non sono cucite direttamente sulla pelle, come Buffalo Bill in “Il silenzio degli innocenti”. Ma sono cucite sulla nostra seconda pelle. Sugli abiti.
Per cui si, tailleur e abbigliamento formale, essendo appunto, “formali”, centrano la persona ponendola in una cornice professionale, quasi austera, pacata. Allo stesso tempo però la decentrano, spostandola dalla sua identicità e facendole così perdere parte delle caratteristiche che la contraddistinguono e che, probabilmente, sarebbero fondamentali nello svolgimento delle sue mansioni.
LA CREATIVITÀ IN UN TAILLEUR
Di sicuro esistono, ma quante sono le persone che si sentono creative, fantasiose, ispirate, fuori dagli schemi in un completo perfettamente stirato, scuro, con camicia inamidata, cravatta stretta al collo e stringate minuziosamente allacciate?
È il materiale stesso degli abiti, la piega, l’attenzione che si pone per non sgualcirlo, la maniera in cui i movimenti al suo interno diventano artificiosi che porta a sentirsi ed essere rigidi.
È vero che alcuni studi hanno dimostrato, ad esempio, che i camici da laboratorio, bianchi, ariosi e senza particolari caratteristiche (se non quelle che noi cognitivamente vi associamo) favoriscono la concentrazione sull’obiettivo, non essendoci elementi di distrazione.
Così come è anche vero che l’utilizzo di una uniforme in uno staff aumenta la brand awareness, il senso di connessione reciproca, l’orientamento all’obiettivo da parte del team, il sentirsi parte del gruppo.
Sono vere anche altre evidenze, come il fatto che chi indossa un completo androgino sia percepito come più bravo e professionale o che le persone tendano a fidarsi e a credere di più a chi si interfaccia con loro con abiti formali.
MA MA MA
Queste evidenze sono valide nello svolgimento di mansioni tecniche, che devono essere sempre svolte allo stesso modo; oppure nei lavori in cui l’identità del marchio deve essere riconoscibile sempre e immediatamente (pensa entrare da Foot Locker e vedere un membro del team con una divisa diversa: panico).
Diverso il discorso per quel che concerne i lavori dove flessibilità e creatività sono necessari. Non mi riferisco solo a lavori inerenti l’arte bensì anche a tutti quei lavori in cui c’è l’incontro con un’altro, dove si viene a creare una relazione. Quelli in cui c’è bisogno di vedere (veramente) l’altro per risolvere determinate problematiche o quelli in cui si creano situazioni in cui è fondamentale avere la grande dote del riuscire a cambiare rapidamente il punto di vista e pensare in maniera creativa e non convenzionale. Come dice quell’iper saggio di Duncker.
Pensateci: come vi sentite ad indossare ogni giorno sempre lo stesso abito, sempre gli stessi colori; in questa mise come vi approcciate alla risoluzione dei problemi? Riuscite a guardarli in maniera caleidoscopica, vi sentite creativi abbastanza da osare?
E come vi sentite invece quando aggiungete qualcosa di diverso al vostro look? Qualcosa fuori dalle righe, che dice sottovoce qualcosa di voi?
IL MONDO DEL CAPO
C’è un altro dettaglio che merita attenzione. E che vi propongo nel prossimo articolo.
Perché si raga, sono una grande, malefica nerd rompi baguette! Soprattutto quando si tratta di terapia della moda, argomento del quale parlerei e scriverei per ore, giorni, mesi, anni, libri, auto, viaggi, fogli di giornale!
Intanto riflettete (e se volete scrivete nei commenti) su questa domanda: come vi comportate sul posto di lavoro quando indossate la divisa imposta e come siete quando aggiungete un vostro dettaglio o quando avete il giorno free dress?
Non perdetevi il prossimo chapter?