Il dizionario definisce la bellezza come
qualcosa “che ha una forma o un aspetto piacevole, perfetto e armonioso, che suscita sentimenti di ammirazione, di grandezza, di nobiltà, di piacere, di perfezione”
In “Storia della bellezza” Umberto Eco sottolinea che “bello”-così come grazioso, meraviglioso, superbo, sublime-è un aggettivo usato per indicare qualcosa che ci piace.
E altri ancora sono i punti di vista dei maggiori filosofi; ad esempio per Platone la bellezza, ossia la perfezione, esiste solo nel mondo intellegibile, in quell’Iperuranio da cui tutto ha origine.
La maggior parte delle teorizzazioni non definice il punto di vista, che si suppone essere soggettivo.
Al di là degli standard, al di là delle definizioni e dei diktat, ognuno ha la propra idea di bellezza; i sensi di ciascuno sono appagati da immagini, profumi, suoni diversi.
LA BELLEZZA SOGGETTIVA
Spesso, nonostante la nostra figura susciti neglæ altræ sensazioni di piacevolezza riconducibili alla percezione di bellezza, essa non coincide appieno con ciò che per noi significa “bellezza”.
Per cui può succedere che l’immagine che abbiamo, che può essere definita BELLA da tantæ, non collimi con quella che noi abbiamo interiorizzato come “immagine bella”, cui tendiamo e che vorremmo riprodurre all’esterno.
MIRIAM LEONE
Qualche giorno fa su Instagram
Miriam Leone ha pubblicato un selfie in cui invitava a farsi vedere così come si è, senza filtri, naturali, imperfetti, fragili. Assolutamente e meravigliosamente NORMALI.
2.574 commenti, molti dei quali sminuenti il suo intento comunicativo; altri che la additano come beauty-washing, come ridicola attivista della normalizzazione delle imperfezioni, come finta “normale” tra i comuni mortali.
Chi ha scritto vede solo la sua propria realtà, non quella che si vede con gli occhi di Miriam. Che magari il giorno prima si era vista splendente e aveva quasi raggiunto la sua immagine ideale, mentre il giorno dopo si è svegliata con occhiaie e stropicciature.
Chi ha commentato in questo senso in qualche modo le dice
“NO! Tu in questo argomento SEI ESCLUSA, NON PUOI METTERCI BECCO! Non sai come ci si sente”,
negandole così un suo vissuto, escludendola da una esperienza sociale condivisa.
Così esser bellæ diventa una condanna, un peso da saper portare, una spada di Damocle che in potenza potrebbe reciderti la testa. Paradossale eh.
Perché se sei bellæ non puoi permetterti di provare sentimenti di tristezza riguardo al tuo corpo, alla tua immagine; e se li provi devi tenerli per te. Se la maggior parte della gente ti trova bellæ non puoi osare pensare il contrario di te, non puoi stropicciare un dono che ti è stato fatto e che tutti vorrebbero.
Se sei bellæ per i più le tue imperfezioni diventano roba da niente; devi avere qualcosa di realmente visibile per poter provare qualcosa di davvero profondo. Un po’ come funziona per i disturbi mentali: se la malattia non si vede, se non suscita pathos negli altri, allora non è malattia.
E se sei bellæ, non ti vedi tale e soffri delle normali dispercezioni sei unæ ridicolæ a caccia di like, che finge di essere come i comuni mortali sapendo di essere a spanne di distanza.
In pratica se i più vedono in te la bellezza, devi ergerti al di sopra di tuttæ loro e lasciare che ti ammirino. Diventando ovviamente la stronza che “ce l’ha solo lei”.
In un modo o nell’altro la bellezza diventa caratteristica che spinge all’alienazione, all’isolamento, all’ostracizzazione dal gruppo. Un peso che bisogna saper portare.
Sono consapevole di non avere elementi marcati che mi inducano a pensare di essere brutta. Anzi per tutta la vita mi è stato riferito il contrario.
E invece io per gran parte della mia vita mi guardavo allo specchio e mi dicevo “cazzo quanto sei brutta”.
In parte perché la mia immagine non corrispondeva all’ideale di bellezza che avevo costruito, in parte per alcuni vissuti psichici non belli (appunto) che proiettavo al mio esterno.
Di quello che provavo, che vedevo, non potevo parlarne con nessuno, perché se no ero una ingrata o prendevo in giro le altre persone.
Io non potevo capire cosa provassero gli altræ, quindi dovevo stare zitta e negare i miei vissuti. Continuamente.
La verità è che lo sapevo benissimo, perché quello che riuscivo a vedere era un baffo che copriva interamente la mia faccia, le cosce che si dilatavano ad ogni morso di pizza, la fronte che si riempiva di linee e la ruga di espressione vicino alle labbra che scavava un solco più profondo ogni giorno.
Ora, non posso parlare per Miriam, ma ho interpretato così quello che voleva comunicare.
LEGGERE TRA LE RIGHE
Non bisogna sempre essere alla ricerca dell’immagine perfetta di sé; non è essenziale avere i pori levigati, le labbra super rosa e alcuna traccia di pelo sul corpo per uscire fuori, per mostrarsi.
Non è necessario spendere tanto tempo, fatica (psichica) a modificare foto, applicare filtri, tagliare parti di sé per esporsi.
Il giudizio che noi attribuiamo aglæ altræ in realtà diventa il nostro giudizio.
Siamo noi a dirci continuamente che non andiamo bene, modificandoci e filtrandoci.
Il benessere può cominciare dal prendere atto del proprio essere, delle caratteristiche (NON imperfezioni) distintive, di tutto ciò che ci rende unicæ e distinguibili dal resto. Dall’affermazione di sé per chi si è non per chi si dovrebbe essere.
La gobbetta sul naso, l’eterno brufolo sulla guancia, le discromie…