Lo percepisco solo io o ultimamente siamo tutti immersi in un vortice di cambiamenti epocali? No, credo proprio che sia un sentire diffuso…
I social perdono di potenza, e di interesse; i consumatori sono sempre più stufi di adv, gifted by e di orde di influencers (o content creator, come vogliono farsi chiamare) che lanciano marchette ad ogni virgola; le persone si ridimensionano. Via la sovraesposizione, l’accumulo, l’iper consumo, la velocità, la fruizione spasmodicamente vorace e frettolosa di contenuti. Abbiamo costruito un sistema che impone cambiamenti ad una velocità tale che non riusciamo a stargli più dietro e man mano ci stiamo sempre più stancando e staccando da esso.
Ovviamente tutto questo ha delle ripercussioni anche sui nostri comportamenti d’acquisto, sullo shopping in particolare.
Quindici anni di shopping online
Quindici anni fa lo shopping aveva davanti a se un unico futuro: l’online. Piattaforme come Net-a-Porter, Asos, MyTheresa con l’aiuto dei social hanno cambiato il nostro modo di pensare e fare shopping, accorciando sempre di più il gap tra nascita del desiderio e soddisfazione dello stesso, senza passare dalla frustrazione della ricerca. E se inizialmente questo ci era sembrata una svolta, un sogno, piano piano si è trasformato in un’arma letale, con effetti sull’ambiente, nonché dentro e su di noi. L’era della corsa all’oro su internet con spedizioni gratuite, resi illimitati e raccomandazioni degli influencers ha lasciato il posto ad un’epoca di overconsumo, sovraesposizione, iperstimolazione, intolleranza della frustrazione (su tutti i piani), mancanza di motivazione, confusione di identità e sfiducia.
I consumatori hanno cominciato ad essere avidi di shopping e allo stesso tempo insicuri e sfiduciati. Vogliono sempre di più, sempre più in fretta, per potersi adeguare al ricambio veloce di trend proposto sui social e non perdere la sicurezza identitaria data dal gruppo mediante la condivisione stilistica. Allo stesso tempo sono diventati sempre più insicuri: alla velocità dei cambiamenti esterni che devono sostenere corrisponde una uguale velocità di cambiamenti nell’immagine interiore. Se si dipende dall’esterno per riuscire a vedersi, a definirsi, e l’esterno è instabile, capriccioso, fa si che una cosa accettata oggi sia totalmente inadeguata domani, il risultato è una percezione di profonda instabilità interiore, la sensazione di essere sempre sull’orlo dello “sbagliato”.
Ansia da shopping
A ciò si è aggiunta la brama di chiunque di diventare modello di riferimento, immagine di ispirazione: una gara a chi è la vetrina più illuminata ed espone i prodotti più costosi. Da luogo di svago e divertimento i social si sono trasformati in una competizione di personal branding, dove senti la pressione di curare la copertina, di proporre novità, di vedere scorrere numeri. Sono diventati un luogo di tartassamento all’acquisto: chiunque propone prodotti da comprare, abitudini da acquisire (vedi il boom della skincare), corsi da frequentare, diktat da seguire. I brand si spartiscono le facce, le persone non sanno più di chi fidarsi per farsi guidare negli acquisti. Inoltre, sempre più avulse dai contatti reali, le persone hanno perso l’abitudine allo shopping fisico, che include una buona dose di relazione sociale, di scambio. Quante volte, quando siamo in un negozio, ci ritroviamo a controllare recensioni o a cercare suggerimenti online, perché non ci fidiamo dei seller che vogliono solo “venderci il prodotto”? Come se non sia questo anche l’intento dei profili online cui ci affidiamo…
Siamo entrati in una bolla di incertezza e confusione in cui non sappiamo più dove e come fare acquisti. E quando li facciamo, raramente lo facciamo secondo i nostri valori ma seguendo più una sensazione di bisogno indotto, illusione, desiderio e paura di differenziarci dal gruppo.
Grazie al nuovo modo di divulgare la moda e lo shopping, sappiamo quanto l’industria tessile sia impattante a livello ambientale, conosciamo i significati di green, greenwashing, etica, sostenibilità; sappiamo che economico può significare di scarsa qualità, e veloce significa superficiale; ma non riusciamo ad abbandonare l’illusione di ricchezza (interiore ed esteriore) che l’accumulo e la soddisfazione immediata data dall’acquisto danno.
Qual è il futuro dello shopping?
Le stanno analizzando tutte. Purtroppo colossi fast fashion primeggiano ancora molto, puntando soprattutto sugli adolescenti che frequentano i social e sulle loro insicurezze, nonché sull’insoddisfazione generale delle persone, abbattute da crisi economica e preoccupazioni. Più il mondo fuori si fa inquinato e minaccioso, più la tendenza è a chiudersi dentro e a ricercare sugli schermi fonti affidabili. Così spopolano le live vendita di TikTok Shop, la richiesta di consigli ai creators (non più influencers) di fiducia; nuovissima tendenza in Giappone invece vede i commessi portare interi negozi direttamente a casa dei clienti.
Intanto millennials e gen z coltivano i valori della sostenibilità e dell’etica, spingendo a più non posso gli acquisiti verso una scelta vintage e second hand. Per quanto lo facciano comunque in maniera maniacale, postando quasi ogni giorno video dei “nuovi tesori del mercato”; il che fa pensare che, sebbene sia cambiato il contenuto, il comportamento disfunzione alla base sia rimasto lo stesso, e si riverbera sempre in un overconsumo e una over esposizione, per quanto etica e sostenibile sia.
Come fare shopping?
Allora quale sarà il nuovo e giusto modo di fare shopping? Quello vecchio. Prima dell’online, prima della corsa angosciante all’ultimo trend, prima del ricambio continuo di identità.
Lo shopping fisico, in negozio. È uno shopping che ci dà il tempo. Tempo di visualizzarci, inquadrare la nostra immagine, come vogliamo renderla all’esterno; di esaminare se il trend in questione sia giusto per noi e se riusciamo a sostenere la sensazione di identità ed individualità, nonostante il gruppo vada in un’altra direzione; di riflettere sulla SCELTA. Si perché se ci pensiamo, potendo avere potenzialmente tutto al minimo prezzo, non riusciamo più a scegliere. Ci accaparriamo tutto direttamente. Come trovarsi ad un pranzo e abbuffarsi di ogni cibo indistintamente, senza distinguere tra i cibi che ci piacciono e quelli che ci disgustano.
Altro vantaggio dello shopping fisico: l’attesa e la tolleranza della frustrazione. Se ad oggi il craving e l’impazienza fanno da padroni, lo shopping fisico dà la possibilità di allenarsi alla capacità di saper aspettare e vivere questa finestra come un periodo di ulteriore riflessione, di presa di consapevolezza, proviamo e riproviamo con l’immaginazione addosso il capo e nutriamo il desiderio di vedere la nostra opera (noi stessi) realizzata. L’acquisto finale sarà ancora più soddisfacente perché cosciente, sentito sul corpo e frutto di un processo creativo.
Lo shopping fisico dà la possibilità di comprare secondo valori. Interrompe la catena dell’incoerenza e della dissonanza, rendendoci capaci di asserire e concretizzare i nostri valori, indossandoli. E ciò porta ad esperire un maggior senso di autoefficacia, auto regolazione e un aumento dei livelli di autostima.
In ultimo, lo shopping fisico ci riabitua alle relazioni sociali, ad uscire fuori, confrontarci con l’esterno, comunicare direttamente, reggere e leggere le persone. Ci riporta alla vita fuori dal formato dello screen. Ridiventa occasione di scambio e di convivialità, anche quando usciamo in solitaria.
Comprare meno, comprare secondo valori, comprare riflettendo e secondo principi. Comprare guidati dal piacere, dall’eccitazione, dalla creazione, non da angoscia, ansia e confluenza. Questo è il futuro che dovrebbe prendere lo shopping. Che farebbe bene a noi, psicologicamente e fisicamente, nonché all’ambiente in cui i nostri corpi stilistici si muovono.
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